Interpretazione complessiva




Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e spiega le ragioni del viaggio allegorico: Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale, che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che in questa vita è chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e guadagnare la beatitudine. Sul piano allegorico, dunque, la selva rappresenta proprio il peccato (essa è infatti descritta come selvaggia e aspra e forte, spaventosa al solo ricordo e poco meno amara della morte stessa), mentre su quello letterale è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via, per cui i lettori del tempo di Dante potevano trovare familiare un paesaggio simile (all'epoca le zone boscose erano assai estese e selvatiche, come per esempio in Maremma: cfr. Inf., XIII, 7-9). Altrettanto realistici gli altri elementi del paesaggio simbolico, a cominciare dal colle che allegoricamente raffigura la via alla felicità terrena, cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza, prudenza e giustizia) per le quali la ragione umana è sufficiente, e che Dante tenta inutilmente di scalare vedendo sorgere il sole dietro la sua vetta (esso rappresenta la via verso la salvezza, oltre all'ovvia considerazione che il nuovo giorno dissipa le paure della notte e ridona al poeta nuova speranza). Le tre fiere che sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono invece le tre principali disposizioni peccaminose: la lonza è la lussuria, il leone è la superbia, la lupa è l’avarizia-cupidigia, secondo una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse ovviamente rappresentano tre animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una foresta (tranne naturalmente il leone, ma nulla conferma che il viaggio dantesco avvenga in Italia e d'altronde vari interpreti hanno ipotizzato che questi luoghi si trovino in realtà nei pressi di Gerusalemme, sotto la quale si spalanca la voragine infernale). Più pericolosa è la lupa-avarizia, radice di tutti i mali e per Dante causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva, mentre va ricordato che in molti passi del poema egli si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del suo tempo, causata principalmente proprio dall'avidità di denaro. La lupa si rivela un ostacolo insuperabile e Dante lentamente scivola nuovamente verso la selva, cioè il peccato. La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel viaggio ultraterreno e che è allegoria della ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente a condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali: egli giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia ombra od omo certo. La risposta del poeta latino è una vera e propria prosopopea, un'elegante auto-presentazione in cui Virgilio non fa direttamente il proprio nome (sarà Dante a citarlo al termine delle sue parole) e si manifesta come l'autore dell'Eneide, il poema che era considerato il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di quella Roma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa. Virgilio rimprovera Dante del fatto che non sale il dilettoso monte che è principio di ogni felicità e il poeta fiorentino risponde indicando Virgilio come il suo maestro, colui da cui ha tratto l'alto stile tragico che gli ha dato la fama, invocando poi il suo aiuto contro la lupa-avarizia che lo riempie di terrore e costituisce uno sbarramento insuperabile: la successiva risposta di Virgilio si divide in due parti, la prima delle quali dedicata alla profezia del «veltro» che ricaccerà la lupa nell'Inferno da dove è uscita (per le molte interpretazioni di questo personaggio si veda oltre), la seconda al viaggio nell'Oltretomba che Dante dovrà affrontare se vuole scampare da questo loco selvaggio, e in cui sotto la sua guida visiterà Inferno e Purgatorio, mentre se vorrà visitare anche il Paradiso dovrà attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel Dio che non ha conosciuto. Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, che sola può portare l'uomo alla salvezza, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della ragione naturale, che è in grado di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e a una condotta onesta, ma non di arrivare alla beatitudine eterna: è questa l'ossatura allegorica dell'intero poema e la cosa diverrà chiara già dal Canto II, in cui Virgilio rievocherà l'incontro con Beatrice nel Limbo e spiegherà che il viaggio di Dante è voluto da Dio, dunque non è folle in quanto non affrontato col solo ausilio della ragione dei filosofi che Virgilio rappresenta. La scelta di questo personaggio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone Uticense, ma Virgilio nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi antichi, inoltre si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse preannunciate nelle sue opere (specie nella famosa Egloga IV: cfr. Purg., XXII, in cui Stazio dichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi); egli era anche il principale scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il Cristianesimo, per cui l'autore dell'Eneide era in realtà una scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni. È interessante inoltre osservare che dopo questo primo incontro fra discepolo e maestro si creerà un rapporto di reciproco intenso affetto, per cui Virgilio accudirà Dante come un figlio e questi ricambierà le cure con profondo rispetto e deferenza, fino al momento della separazione in cui Dante si abbandonerà a un pianto disperato (Purg., XXX, 40 ss.). Il Canto si chiude con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, salvo poi (all'inizio del Canto seguente) venire assalito da dubbi e timori, che Virgilio fugherà raccontando del suo incontro con Beatrice. La profezia del veltro È una delle più note e oscure della Commedia, evocata da Virgilio che preannuncia la venuta di questo misterioso personaggio destinato a cacciare e uccidere la lupa-avarizia dall’Italia e dal mondo (il veltro era propriamente un cane usato durante le battute di caccia, dunque perfettamente in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio: cfr. Inf., XIII, 126, come veltri ch'uscisser di catena). Su di lui sono state avanzate le più disparate ipotesi, che però, tralasciando le più fantasiose, si riducono a un papa (forse un francescano: il feltro potrebbe alludere al panno del suo saio), a un imperatore (Arrigo VII di Lussemburgo?), a un signore italiano (Cangrande della Scala?). La questione è complicata anche dall'incerta cronologia della composizione di questo Canto, per cui si obietta che se Dante scrisse questi versi intorno al 1307 (è questa l'ipotesi più accreditata, mentre altri pensano addirittura che abbia iniziato la Commedia prima dell'esilio) era in effetti troppo presto perché potesse pensare ad Arrigo VII, che scese in Italia solo nel 1310-1313, ma anche a Cangrande, che all'epoca aveva appena sedici anni e che il poeta incontrò molto più tardi. Del resto è innegabile che l'elogio a Cangrande messo in bocca all'avo Cacciaguida in Par., XVII, 76 ss. presenti molti punti di contatto con questa profezia e fa propendere per tale identificazione, ma occorrerebbe pensare che Dante abbia rimaneggiato il Canto in un secondo momento e di questo non c'è alcuna conferma diretta nella tradizione manoscritta. Non è poi da escludere che il veltro non fosse da identificare con un personaggio in particolare e che la profezia sia volutamente ambigua proprio per essere indeterminata, caso non certo unico nel poema dantesco; chiunque fosse il veltro, Dante si aspettava da lui un profondo rinnovamento sociale e politico in grado di riportare la giustizia troppo spesso calpestata dagli ecclesiastici corrotti e dagli uomini politici, che è poi la situazione di degrado morale e disonestà che il poeta denuncia a più riprese nella Commedia, sempre con parole di ferma condanna. Tale profezia si ricollega forse a quella del «DXV» contenuta nel Canto XXXIII del Purgatorio, dove si dice che un «messo di Dio» ucciderà la prostituta che simboleggia la Chiesa compromessa con la monarchia di Francia: molti interpreti hanno sostenuto l'identificazione di questo «DXV» con Arrigo VII e con lo stesso veltro, per quanto di ciò non vi sia alcuna prova certa, ma è evidente che entrambe le profezie hanno in comune il carattere oscuro ed enigmatico e preannunciano quella palingenesi della società che Dante si attendeva, e nella quale manifesta una fede incrollabile in più di un passo del poema. Note e passi controversi Il v. 1 è stato interpretato da alcuni come in quella metà della vita che si trascorre domendo (Dante racconterebbe una visione avuta in sogno), ma l'autore si rifà quasi certamente a un passo biblico (Isaia, 38, 10) dove si dice in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi, cioè «andrò presso la porta dell'Inferno a metà dei miei giorni». Dante stesso, in Conv., IV, 23 descrive la vita umana come un arco che inizia a declinare dopo i 35 anni di età, senza contare che descrive il suo viaggio come realmente avvenuto (egli è andato sensibilimente nell'Aldilà). In Ps., LXXXIX, 10 si legge inoltre che dies annorum nostrorum... septuaginta anni («la vita dell'uomo dura settant'anni»), per cui è evidente che Dante intende collocare il suo viaggio nella primavera dell'anno 1300. Al v. 5 selva selvaggia è una paronomasia di forte sapore guittoniano. Il sonno citato al v. 11 è quello della ragione che conduce al peccato, come spesso indicato nelle Scritture. Il pianeta del v. 17 è ovviamente il Sole. Nel v. 27 il che può avere valore di soggetto o di compl. oggetto, quindi il senso può essere la selva, che non lasciò vivere nessuno oppure la selva, che nessuna persona vivente poté abbandonare. Pare più probabile la prima interpretazione, nel senso che il peccato provoca la morte dell'anima portando alla dannazione. Il v. 30 è stato variamente interpretato, ma forse Dante indica semplicemente che, tentando di scalare il colle, il piede più basso è quello più saldo e quindi l'ascesa è alquanto incerta. Altri pensano che il piede più basso sia il sinistro, simbolo degli appetiti materiali che frenano Dante sulla strada della salvezza (le due ipotesi non si escludono a vicenda). I vv. 37-40 indicano che è l'alba e il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quella che era con lui al momento della Creazione fissata tradizionalmente in primavera: l'equinozio primaverile era considerato momento favorevole, quindi anche per questa ragione Dante si riconforta (l'indicazione permette inoltre di collocare il tempo dell'azione tra marzo e aprile del 1300, come successivamente verrà meglio precisato). Le rime ai vv. 44, 46, 48 (-esse / -isse) sono siciliane ed è dunque da respingere la lezione venesse di alcuni mss. La similitudine ai vv. 55-57 è di solito riferita all'avaro, ma alcuni hanno pensato al giocatore, che si rattrista quando perde tutti i suoi guadagni. Il v. 63 (chi per lungo silenzio parea fioco) può significare qualcuno, che a causa del lungo silenzio della luce (penombra) si scorgeva a malapena, oppure qualcuno, che a causa di un lungo silenzio (poetico) non aveva più voce. Questa seconda ipotesi alluderebbe al fatto che, dopo Virgilio, nessuno scrisse un poema paragonabile all'Eneide, quindi il poeta latino aveva perso autorevolezza. Le due interpretazioni possono coesistere. Ai vv. 68-69 Virgilio si presenta come originario di Mantova (era nativo di Andes, un piccolo villaggio vicino alla città sul Mincio) e indica i genitori come lombardi, con un anacronismo in quanto il termine Lombardia (che ai tempi di Dante alludeva a tutta l'italia settentrionale) non esisteva ai tempi dell'antica Roma. I vv. 73-75 alludono in modo perifrastico ad Enea, figlio di Anchise e protagonista dell'Eneide. Ilion è l'altro nome di Troia. Noia e gioia (vv. 76, 78) derivano dal provenzale e hanno significato assai più ampio che nella lingua moderna: il primo indica la piena e perfetta felicità, il secondo l'angoscia e la pena del peccato. Al v. 84 il volume è sicuramente l'Eneide. Lo bello stilo che ha fatto onore a Dante è lo stile alto e tragico di quel poema, che Dante ha già usato nelle canzoni dottrinali composte in precedenza e destinate ad essere commentate nel Convivio. Gli animali (v. 100) cui è detta accoppiarsi la lupa-avarizia sono gli uomini e non i vizi, come fu inteso da alcuni. Il peltro (v. 103) era una lega di piombo e stagno usata per forgiare le monete, quindi Virgilio dice che il veltro non sarà avido né di terre né di ricchezze. Sapienza, amore e virtute (v. 104) indicano le tre Persone della Trinità, ovvero Figlio, Spirito Santo e Padre. Il v. 105 (e sua nazion sarà tra feltro e feltro), riferito al veltro, è stato variamente interpretato: può riferirsi al feltro delle bandiere (la sua origine non sarà da una città in particolare), al feltro che foderava l'interno delle urne dov'erano votati i magistrati comunali (un podestà?), al panno del saio francescano (un papa di quell'Ordine?), a Feltre e Montefeltro (Cangrande della Scala, il cui territorio era compreso fra quelle città). Ai vv. 107-108 Virgilio ricorda alcuni personaggi dell'Eneide: Camilla, la regina dei Volsci alleata di Turno e uccisa dall'etrusco Arunte (XI, 758 ss.); Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani uccisi dai Latini mentre cercano di portare un messaggio ad Enea (IX, 177 ss.); lo stesso Turno re dei Rutuli, principale nemico di Enea e da lui ucciso nel finale del poema (XII, 936 ss.). Tutti sono ricordati come valorosi soldati caduti per il bene dell'Italia e, curiosamente, Turno viene citato tra i due amici Eurialo e Niso, mentre è interessante notare che due di loro sono troiani, gli altri due nemici di Enea (evidentemente tutti hanno partecipato alla costruzione della «nazione» italica, anche se schierati su fronti opposti). Nel v. 117 il verbo grida può avere il senso di invoca, oppure di impreca contro: nel primo caso, più probabile, significa che ogni dannato invoca la seconda morte, il definitivo annichilimento dell'anima; nel secondo, vuol dire che ogni dannato impreca contro la seconda morte, intesa come la dannazione. Il v. 127 crea un'analogia tra Dio e l'Imperatore sulla Terra, che impera (cioè estende la sua autorità) in ogni luogo ma regge (governa) propriamente solo nel proprio territorio: Dio ha autorità su tutto l'Universo e governa solo nell'Empireo. La porta di san Pietro (v. 134) è stata intesa come la porta del Paradiso, ma secondo altri è quella del Purgatorio descritta in Purg., IX e presidiata dall'angelo guardiano che è detto vicario di Pietro.
Interpretazione complessiva Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e spiega le ragioni del viaggio allegorico: Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale, che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che in questa vita è chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e guadagnare la beatitudine. Sul piano allegorico, dunque, la selva rappresenta proprio il peccato (essa è infatti descritta come selvaggia e aspra e forte, spaventosa al solo ricordo e poco meno amara della morte stessa), mentre su quello letterale è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via, per cui i lettori del tempo di Dante potevano trovare familiare un paesaggio simile (all'epoca le zone boscose erano assai estese e selvatiche, come per esempio in Maremma: cfr. Inf., XIII, 7-9). Altrettanto realistici gli altri elementi del paesaggio simbolico, a cominciare dal colle che allegoricamente raffigura la via alla felicità terrena, cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza, prudenza e giustizia) per le quali la ragione umana è sufficiente, e che Dante tenta inutilmente di scalare vedendo sorgere il sole dietro la sua vetta (esso rappresenta la via verso la salvezza, oltre all'ovvia considerazione che il nuovo giorno dissipa le paure della notte e ridona al poeta nuova speranza). Le tre fiere che sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono invece le tre principali disposizioni peccaminose: la lonza è la lussuria, il leone è la superbia, la lupa è l’avarizia-cupidigia, secondo una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse ovviamente rappresentano tre animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una foresta (tranne naturalmente il leone, ma nulla conferma che il viaggio dantesco avvenga in Italia e d'altronde vari interpreti hanno ipotizzato che questi luoghi si trovino in realtà nei pressi di Gerusalemme, sotto la quale si spalanca la voragine infernale). Più pericolosa è la lupa-avarizia, radice di tutti i mali e per Dante causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva, mentre va ricordato che in molti passi del poema egli si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del suo tempo, causata principalmente proprio dall'avidità di denaro. La lupa si rivela un ostacolo insuperabile e Dante lentamente scivola nuovamente verso la selva, cioè il peccato. La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel viaggio ultraterreno e che è allegoria della ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente a condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali: egli giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia ombra od omo certo. La risposta del poeta latino è una vera e propria prosopopea, un'elegante auto-presentazione in cui Virgilio non fa direttamente il proprio nome (sarà Dante a citarlo al termine delle sue parole) e si manifesta come l'autore dell'Eneide, il poema che era considerato il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di quella Roma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa. Virgilio rimprovera Dante del fatto che non sale il dilettoso monte che è principio di ogni felicità e il poeta fiorentino risponde indicando Virgilio come il suo maestro, colui da cui ha tratto l'alto stile tragico che gli ha dato la fama, invocando poi il suo aiuto contro la lupa-avarizia che lo riempie di terrore e costituisce uno sbarramento insuperabile: la successiva risposta di Virgilio si divide in due parti, la prima delle quali dedicata alla profezia del «veltro» che ricaccerà la lupa nell'Inferno da dove è uscita (per le molte interpretazioni di questo personaggio si veda oltre), la seconda al viaggio nell'Oltretomba che Dante dovrà affrontare se vuole scampare da questo loco selvaggio, e in cui sotto la sua guida visiterà Inferno e Purgatorio, mentre se vorrà visitare anche il Paradiso dovrà attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel Dio che non ha conosciuto. Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, che sola può portare l'uomo alla salvezza, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della ragione naturale, che è in grado di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e a una condotta onesta, ma non di arrivare alla beatitudine eterna: è questa l'ossatura allegorica dell'intero poema e la cosa diverrà chiara già dal Canto II, in cui Virgilio rievocherà l'incontro con Beatrice nel Limbo e spiegherà che il viaggio di Dante è voluto da Dio, dunque non è folle in quanto non affrontato col solo ausilio della ragione dei filosofi che Virgilio rappresenta. La scelta di questo personaggio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone Uticense, ma Virgilio nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi antichi, inoltre si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse preannunciate nelle sue opere (specie nella famosa Egloga IV: cfr. Purg., XXII, in cui Stazio dichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi); egli era anche il principale scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il Cristianesimo, per cui l'autore dell'Eneide era in realtà una scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni. È interessante inoltre osservare che dopo questo primo incontro fra discepolo e maestro si creerà un rapporto di reciproco intenso affetto, per cui Virgilio accudirà Dante come un figlio e questi ricambierà le cure con profondo rispetto e deferenza, fino al momento della separazione in cui Dante si abbandonerà a un pianto disperato (Purg., XXX, 40 ss.). Il Canto si chiude con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, salvo poi (all'inizio del Canto seguente) venire assalito da dubbi e timori, che Virgilio fugherà raccontando del suo incontro con Beatrice. La profezia del veltro È una delle più note e oscure della Commedia, evocata da Virgilio che preannuncia la venuta di questo misterioso personaggio destinato a cacciare e uccidere la lupa-avarizia dall’Italia e dal mondo (il veltro era propriamente un cane usato durante le battute di caccia, dunque perfettamente in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio: cfr. Inf., XIII, 126, come veltri ch'uscisser di catena). Su di lui sono state avanzate le più disparate ipotesi, che però, tralasciando le più fantasiose, si riducono a un papa (forse un francescano: il feltro potrebbe alludere al panno del suo saio), a un imperatore (Arrigo VII di Lussemburgo?), a un signore italiano (Cangrande della Scala?). La questione è complicata anche dall'incerta cronologia della composizione di questo Canto, per cui si obietta che se Dante scrisse questi versi intorno al 1307 (è questa l'ipotesi più accreditata, mentre altri pensano addirittura che abbia iniziato la Commedia prima dell'esilio) era in effetti troppo presto perché potesse pensare ad Arrigo VII, che scese in Italia solo nel 1310-1313, ma anche a Cangrande, che all'epoca aveva appena sedici anni e che il poeta incontrò molto più tardi. Del resto è innegabile che l'elogio a Cangrande messo in bocca all'avo Cacciaguida in Par., XVII, 76 ss. presenti molti punti di contatto con questa profezia e fa propendere per tale identificazione, ma occorrerebbe pensare che Dante abbia rimaneggiato il Canto in un secondo momento e di questo non c'è alcuna conferma diretta nella tradizione manoscritta. Non è poi da escludere che il veltro non fosse da identificare con un personaggio in particolare e che la profezia sia volutamente ambigua proprio per essere indeterminata, caso non certo unico nel poema dantesco; chiunque fosse il veltro, Dante si aspettava da lui un profondo rinnovamento sociale e politico in grado di riportare la giustizia troppo spesso calpestata dagli ecclesiastici corrotti e dagli uomini politici, che è poi la situazione di degrado morale e disonestà che il poeta denuncia a più riprese nella Commedia, sempre con parole di ferma condanna. Tale profezia si ricollega forse a quella del «DXV» contenuta nel Canto XXXIII del Purgatorio, dove si dice che un «messo di Dio» ucciderà la prostituta che simboleggia la Chiesa compromessa con la monarchia di Francia: molti interpreti hanno sostenuto l'identificazione di questo «DXV» con Arrigo VII e con lo stesso veltro, per quanto di ciò non vi sia alcuna prova certa, ma è evidente che entrambe le profezie hanno in comune il carattere oscuro ed enigmatico e preannunciano quella palingenesi della società che Dante si attendeva, e nella quale manifesta una fede incrollabile in più di un passo del poema. Note e passi controversi Il v. 1 è stato interpretato da alcuni come in quella metà della vita che si trascorre domendo (Dante racconterebbe una visione avuta in sogno), ma l'autore si rifà quasi certamente a un passo biblico (Isaia, 38, 10) dove si dice in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi, cioè «andrò presso la porta dell'Inferno a metà dei miei giorni». Dante stesso, in Conv., IV, 23 descrive la vita umana come un arco che inizia a declinare dopo i 35 anni di età, senza contare che descrive il suo viaggio come realmente avvenuto (egli è andato sensibilimente nell'Aldilà). In Ps., LXXXIX, 10 si legge inoltre che dies annorum nostrorum... septuaginta anni («la vita dell'uomo dura settant'anni»), per cui è evidente che Dante intende collocare il suo viaggio nella primavera dell'anno 1300. Al v. 5 selva selvaggia è una paronomasia di forte sapore guittoniano. Il sonno citato al v. 11 è quello della ragione che conduce al peccato, come spesso indicato nelle Scritture. Il pianeta del v. 17 è ovviamente il Sole. Nel v. 27 il che può avere valore di soggetto o di compl. oggetto, quindi il senso può essere la selva, che non lasciò vivere nessuno oppure la selva, che nessuna persona vivente poté abbandonare. Pare più probabile la prima interpretazione, nel senso che il peccato provoca la morte dell'anima portando alla dannazione. Il v. 30 è stato variamente interpretato, ma forse Dante indica semplicemente che, tentando di scalare il colle, il piede più basso è quello più saldo e quindi l'ascesa è alquanto incerta. Altri pensano che il piede più basso sia il sinistro, simbolo degli appetiti materiali che frenano Dante sulla strada della salvezza (le due ipotesi non si escludono a vicenda). I vv. 37-40 indicano che è l'alba e il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quella che era con lui al momento della Creazione fissata tradizionalmente in primavera: l'equinozio primaverile era considerato momento favorevole, quindi anche per questa ragione Dante si riconforta (l'indicazione permette inoltre di collocare il tempo dell'azione tra marzo e aprile del 1300, come successivamente verrà meglio precisato). Le rime ai vv. 44, 46, 48 (-esse / -isse) sono siciliane ed è dunque da respingere la lezione venesse di alcuni mss. La similitudine ai vv. 55-57 è di solito riferita all'avaro, ma alcuni hanno pensato al giocatore, che si rattrista quando perde tutti i suoi guadagni. Il v. 63 (chi per lungo silenzio parea fioco) può significare qualcuno, che a causa del lungo silenzio della luce (penombra) si scorgeva a malapena, oppure qualcuno, che a causa di un lungo silenzio (poetico) non aveva più voce. Questa seconda ipotesi alluderebbe al fatto che, dopo Virgilio, nessuno scrisse un poema paragonabile all'Eneide, quindi il poeta latino aveva perso autorevolezza. Le due interpretazioni possono coesistere. Ai vv. 68-69 Virgilio si presenta come originario di Mantova (era nativo di Andes, un piccolo villaggio vicino alla città sul Mincio) e indica i genitori come lombardi, con un anacronismo in quanto il termine Lombardia (che ai tempi di Dante alludeva a tutta l'italia settentrionale) non esisteva ai tempi dell'antica Roma. I vv. 73-75 alludono in modo perifrastico ad Enea, figlio di Anchise e protagonista dell'Eneide. Ilion è l'altro nome di Troia. Noia e gioia (vv. 76, 78) derivano dal provenzale e hanno significato assai più ampio che nella lingua moderna: il primo indica la piena e perfetta felicità, il secondo l'angoscia e la pena del peccato. Al v. 84 il volume è sicuramente l'Eneide. Lo bello stilo che ha fatto onore a Dante è lo stile alto e tragico di quel poema, che Dante ha già usato nelle canzoni dottrinali composte in precedenza e destinate ad essere commentate nel Convivio. Gli animali (v. 100) cui è detta accoppiarsi la lupa-avarizia sono gli uomini e non i vizi, come fu inteso da alcuni. Il peltro (v. 103) era una lega di piombo e stagno usata per forgiare le monete, quindi Virgilio dice che il veltro non sarà avido né di terre né di ricchezze. Sapienza, amore e virtute (v. 104) indicano le tre Persone della Trinità, ovvero Figlio, Spirito Santo e Padre. Il v. 105 (e sua nazion sarà tra feltro e feltro), riferito al veltro, è stato variamente interpretato: può riferirsi al feltro delle bandiere (la sua origine non sarà da una città in particolare), al feltro che foderava l'interno delle urne dov'erano votati i magistrati comunali (un podestà?), al panno del saio francescano (un papa di quell'Ordine?), a Feltre e Montefeltro (Cangrande della Scala, il cui territorio era compreso fra quelle città). Ai vv. 107-108 Virgilio ricorda alcuni personaggi dell'Eneide: Camilla, la regina dei Volsci alleata di Turno e uccisa dall'etrusco Arunte (XI, 758 ss.); Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani uccisi dai Latini mentre cercano di portare un messaggio ad Enea (IX, 177 ss.); lo stesso Turno re dei Rutuli, principale nemico di Enea e da lui ucciso nel finale del poema (XII, 936 ss.). Tutti sono ricordati come valorosi soldati caduti per il bene dell'Italia e, curiosamente, Turno viene citato tra i due amici Eurialo e Niso, mentre è interessante notare che due di loro sono troiani, gli altri due nemici di Enea (evidentemente tutti hanno partecipato alla costruzione della «nazione» italica, anche se schierati su fronti opposti). Nel v. 117 il verbo grida può avere il senso di invoca, oppure di impreca contro: nel primo caso, più probabile, significa che ogni dannato invoca la seconda morte, il definitivo annichilimento dell'anima; nel secondo, vuol dire che ogni dannato impreca contro la seconda morte, intesa come la dannazione. Il v. 127 crea un'analogia tra Dio e l'Imperatore sulla Terra, che impera (cioè estende la sua autorità) in ogni luogo ma regge (governa) propriamente solo nel proprio territorio: Dio ha autorità su tutto l'Universo e governa solo nell'Empireo. La porta di san Pietro (v. 134) è stata intesa come la porta del Paradiso, ma secondo altri è quella del Purgatorio descritta in Purg., IX e presidiata dall'angelo guardiano che è detto vicario di Pietro.
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